Monday, December 24, 2012

senzaskype

Chiamo casa a Roma per fare gli auguri di Natale.

"Ciao mamma, volevo fare gli auguri."

"Auguri, auguri!! Qua ci sono i soliti amici, Gabriella, Enrico, Enrica."

(Voci dal fondo) "Salutacela!!!" (Coro) "Auguri!!!"

"Hai sentito, Laure'?"

"Ho sentito, Ma'. Ricambia."

"Si', si'. Poi magari un giorno facciamo Skype con i bambini. Quando tua sorella me lo carica... Non ha mai tempo... E' sempre troppo impegnata..."

"Mammi', sono due anni che lo dici. Poi mi sa che gia' ce l'hai, Skype, sul computer. Accendi ora, che proviamo."

"CHE, ADESSO?!"

"Eh, adesso, perche'?"

"Noooo, ma qua e' quasi mezzanotte, io sono stanca morta..."

"Mamma, non ti ho detto di andare a spalare la neve, t'ho detto di accendere il computer. Si tratta di permere un tasto con il dito indice."

"Eh, lo so, ma poi devo andare in camera da letto ad accendere il modem, poi devo tornare di qua a vedere se funziona Internet..."

"Accendere il modem, mamma. Non e' come azionare il meccanismo di lancio dello Shuttle. Ce la poi fa'..."

"Eh certo, la fai facile te. Poi in camera da letto c'e' la pupa (Giulia, mia nipote, ndr) che dorme..."

"OK, non fa nie--"

(Mia madre, rivolta a mio padre) "Eh, che dici, Enniu', proviamo a fare Skype con i bambini?"

(flebile voce di mio padre, che normalmente a quest'ora dorme da tre ore, come proveniente dall'Oltretomba) "Che? Che famo...?"

"Skype, dico. SKYPE. COL COMPUTER. CON I BAMBINI IN AMERICA."

"Ah. Skype? In America? Adesso? Noooo..." (voce debolissima)

(Mia madre, con decisione fulminea, decide di prendere il toro per le corna) "Va be', Laure', aspetta."

(Segue lungo silenzio in cui presumo mia madre sia andata nell'altra ala del castello ad accendere il modem. Intanto Gabriel, qui a Los Angeles, apre Skype sul nostro computer. Aspettiamo, aspettiamo, intanto sento la conversazione attorno al tavolo natalizio, rumore di posate, risate.)

Torna mia madre. "Laure', ho acceso. Mo' non capisco se Internet e' connesso. Ma come lo trovo, Skype, con Finder?"

"Prova, mamma."

"Qua mi da' tutti file strani, ma niente Sky---"

Interviene mia sorella con voce irritata, parlando velocissima. "Ma forse non ce l'hai, Skype, no? L'hai caricato? Eh, l'hai caricato? Perche' qua non lo vedo, non lo vedo. Fammi provare. Ma l'hai caricato o no??"

"Ma che ne so, Laura dice che forse me l'ha caricato lei... Aspetta Sabi', stai calma, che mi sposto. Siediti tu."

(Voce sempre piu' innervosita di mia sorella): "Eh, si vede che non ce l'hai. Qua non c'e'. Non si trova. Poi io che ne so?! Io devo andare a casa, eh?! Sono stanca, ho la febbre, non mi sento bene. Vojo anda' a dormi'!"

"E vai, no?"

"MA DOBBIAMO APRIRE I REGALI, NO???"

"Ah, va be', adesso li apriamo."

"Ma Laura proprio adesso deve fa Skype?! IO SONO STANCA, VOGLIO ANDARE A DORMIRE!"

"Aho, ma chi t'ha detto cotica?! E VAI SE VOI ANNA'!"

"Eh no, stai qua al telefono co' Laura, a fa' Skype, a mezzanotte!"

A questo punto io, da casa mia in America, sto ridendo a crepapelle. Bisticciano come se non ci fossi -- o meglio, come se fossi li', seduta nel salotto di casa. Le vedo come se mi fossero davanti. Non riesco a smettere di ridere. Gabriel mi guarda interrogativo.

Mia madre, rivolta a me: "Guarda Laure', famme anda', che tu' sorella..."

"Tranquilla, mamma, auguri e baci a tutti." Clic.

Continuo a ridacchiare. Bello sapere che a casa e' tutto come sempre, esattamente l'ho lasciato. Buon Natale.


Saturday, December 8, 2012

senzatv



"Io e Sara guardiamo un vecchio episodio di "Casa Keaton" in TV. Improvvisamente, Sara comincia a strillare: "Mamma, mamma! Guarda quell'attrice! E' la bibliotecaria della mia scuola!"

"Ma che dici, amore. Sara' una che le somiglia."

"No, mamma, ti giuro, sono sicura, e' lei, e' lei."

Guardo meglio. In effetti, l'attrice sullo schermo potrebbe essere la versione giovane dell'anziana signora che gestisce i libri della scuola elementare dei miei figli. Alla fine dell'episodio, io e Sara controlliamo sui titoli di coda, ed eccola li', e' proprio lei, il primo nome corrisponde. Il cognome, pero', e' diverso, faccio notare, non ancora del tutto convinta.

"Mamma, sara' il nome da sposata."

Sara controlla su Wikipedia e scopriamo che, al solito, ha ragione lei, occhio di falco. L'enciclopedia online ci informa che negli anni Settanta e Ottanta la nostra compassata bibliotecaria ha recitato su tutte le serie che contano, da "Arnold" a "MASH" fino alla "Famiglia Bradford." Tutte i miei programmi preferiti da piccola. "Adesso fa la bibliotecaria in una scuola di Hollywood," si legge sul sito. Troppo fico. Quasi quasi le chiedo l'autografo, quando la vedo.

"Ecco perche' mi piace vivere qui," dico a Sara. "E poi dite che non vi porto mai da nessuna parte."

Friday, December 7, 2012

senzacolazione

Quand'ero piccola io, mia sorella e i miei cugini aspettavamo con impazienza l'8 dicembre, Festa dell'Immacolata, non perche' fossimo devoti della Madonna ma perche' ogni anno Nonna Concetta, per festeggiare il suo onomastico, ci portava tutti insieme a fare colazione da Giolitti. 

Per chi non e' di Roma, Giolitti e' un decrepito e snobbissimo locale a due passi dal Parlamento, dotato di una fredda sala con sedie foderate di velluto verde liso e tavoli di legno scrostati, dove ancora oggi i politici vanno per farsi osannare mentre ciancicano un arancino in piedi e i comuni mortali si fermano per il piacere masochistico di farsi trattare a pesci in faccia dai camerieri finto-sordi e dalla temutissima cassiera cicciona.

Per noi quattro nipoti, Giolitti era semplicemente il Paradiso. La colazione dell'Immacolata si svolgeva cosi': appuntamento sotto casa di nonna a un'ora antelucana, tipo le otto. Ispezione del nostro abbigliamento da parte della festeggiata, che si presentava sempre con un colbacco peloso stile Siberia e una gigantesca pelliccia di visone comprata anni prima in un negozio del centro che smerciava, sottoprezzo, abiti di ex-attrici andate in rovina. Per i miei cugini, belli e soprattutto maschi ("Nonna, perche' dici sempre 'auguri e figli maschi?' 'Perche' i maschi so' mejo delle femmine'), l'ispezione vestiaria andava generalmente alla grande: se anche si fossero presentati nudi, nonna avrebbe sorriso indulgente parlando di "look (pronuncia: lucche) particolare." Mia sorella, essendo comunque la piu' piccola, anche a 30 anni, se la cavava sempre perche' "porella, ancora non capisce... Poi nonna te compra un maglioncino un po' mejo, eh, ni'?" Per me, invece, non c'erano scuse. L'ispezione finiva generalmente male. Un anno, sara' stato il 1989, commisi l'errore di indossare un montgomery blu invece del montone pesantissimo che mi aveva regalato lei un paio d'anni prima. Apriti cielo. Nonna, incredula di fronte a tanta follia, si lamento' per ore. L'anno dopo ancora borbottava. E l'anno seguente pure, non si dava pace. Anzi, se fosse viva, sono sicura che parlerebbe tuttora della figuraccia che dovette fare quella volta da Giolitti a causa "de quer cappottaccio che s'e' messa mi' nipote." E aggiungerebbe: "Almeno per anda' da Giolitti te potevi vesti' bene, eh Laure'?"

Dopo la passata in rassegna, si saliva sull'autobus e si andava in centro. Dopo una breve camminata su via del Corso e attraverso piazza Colonna, si arrivava all'agognata mangiatoia. A questo punto, eravamo famelici e ipereccitati. Per evitare la rovina finanziaria, nonna ci nutriva a due riprese. Prima, ordinava un vassoio (pronuncia: gabare') di 10-12 paste e ce le somministrava in piedi, davanti al bancone, a secco. Poi, una volta placata la prima fame, ci permetteva l'accesso alla sala verde, dove passavamo venti minuti tentando di farci notare dal cameriere e poi ordinavamo cornetti e cioccolate calde. Per le 10, avevamo tutti e quattro un sorriso ebete e le bolle che ci uscivano dalle orecchie.

Mentre noi ci scofanavamo, nonna, che a casa era un'ottima forchetta, da Giolitti mangiava sempre pochissimo. Non ho mai capito se lo facesse per darsi un tono o per risparmiare (escludo che non avesse fame, perche' la conoscevo bene), ma di solito ordinava una spremuta d'arancia (pronuncia: aranciata) e un pasticcino o due. Peggio per lei, pensavamo noi masticando come maiali e raccontando barzellette cretine a voce alta.

Dopo la mangiata, c'era naturalmente la passeggiata di rito. Si andava dritti a Piazza di Spagna a vedere il presepe su Trinita' dei Monti. (Io ho sempre adorato quel presepe, finche' l'anno scorso ci ho portato i miei figli e invece di fare "oh" e "ah" come speravo io, i due mostri hanno guardato i miei meravigliosi pupazzi con occhi vitrei e poi mi hanno chiesto di comprare un giocattolo di plastica dal giornalaio). Tornando verso casa, ci si fermava in una pasticceria su Via Frattina, dove una certa signora Mariella che nonna conosceva da quando era giovane ci vendeva un altro gabare' mangereccio, zeppo di squisite bombette alla crema. Nonna giustificava l'acquisto dicendo che "dovemo porta' qualcosa pure a tu' madre e tu' padre, no?" E prima ancora di uscire dal negozio, ci dava una bombetta a testa da mangiare subito.

Nonna poi e' invecchiata, noi nipoti siamo cresciuti, ci siamo sposati, abbiamo cominciato a lavorare in giro per il mondo e a non aver tempo per l'Immacolata di nonna. Le colazioni non sono mai cessate, ma la lista degli invitati cambiava ogni anno. Abbiamo incluso, a varie riprese, fidanzati, mogli, mariti, figli, amici. L'ultima vera colazione dell'Immacolata l'abbiamo fatta cinque anni fa, con i miei figli, mio marito, mia sorella e mio cugino Stefano. Nonna gia' cominciava a perdere la memoria e non ce la faceva a camminare, allora abbiamo abbandonato Giolitti e siamo andati in macchina da Antonini a Piazza Mazzini. Quel giorno nonna era un po' assente, ma particolarmente presa da mio figlio, l'unico bisnipote maschio, al quale sicuramente avrebbe perdonato gli abbigliamenti piu' assurdi se un giorno avesse potuto portarlo, adolescente, da Giolitti.

Invece non ce l'ha fatta a vederlo crescere. Nel giro di pochi anni, l'Alzheimer le ha tolto l'identita', trasformandola in una vecchietta magra magra e un po' paranoica che non riconosceva piu' nemmeno i nipoti. Tre o quattro anni fa, quando ancora non aveva perso del tutto la consapevolezza, andai a trovarla durante un viaggio in Italia. Nonna non mi ha mai perdonato di essere andata a vivere in America con il marito "forestiero," anche se per lei Gabriel era l'uomo piu' bello del mondo ("alto e biondo, che voj de piu'?"). Quando mi vide, quella volta, mi riconobbe. 
"Laure', me sa che tu' padre se la fa con quella ragazza che lavora alla scuola americana... Na bella ragazza..." mi disse a voce bassa bassa.
"Nonna, quella e' mia madre. Sono sposati da quarant'anni."
Nonna, con gli occhi sgranati: "L'HA GIA' SPOSATA?!"
Poi, guardandomi fissa: "Ma tu stai ancora in America? Perche' non torni da nonna tua?"
Non ebbi il coraggio di dire che partivo il giorno dopo. "Sono tornata, nonna. Non me ne vado piu'."
Nonna non disse niente, vidi che gli occhi perdevano la messa a fuoco e gia' non mi capiva piu'. Pero' mi aveva preso la mano e la stringeva.

Nonna Concetta e' morta l'anno scorso, il giorno dopo aver compiuto 94 anni. Ma per me e' ancora li', nella mia testa, che si lamenta dei miei capelli troppo corti, del mio trucco troppo leggero, dei miei cappotti troppo a buon mercato. Mi faceva tanto arrabbiare, mi irritava come nessuno, ma oggi mi manca.

E allora, nonni', domani mattina facciamo cosi'. Io mi vesto malissimo, con un paio di leggings sformati che so che odieresti e "na majettaccia nera," poi per colazione mi faccio una cioccolata calda e mi sbafo un cornetto di Trader Joe's, e intanto faccio finta che ci sei anche tu, qui con me, in America. Buon onomastico.

Sunday, December 2, 2012

senzadirezione

La prima sera a Roma. E' il giorno di Thanksgiving. A casa, a Los Angeles, la mia famiglia e' alle prese con un gigantesco tacchino, crostate di zucca, mele e noci, e una vagonata di ospiti. Io invece qua sono libera come l'aria, anzi meglio: sono stata invitata a festeggiare il Ringraziamento con le amiche dell'universita', le quali essendo tutte laureate in letteratura americana o inglese, si divertono ogni anno a celebrare insieme (senza figli e mariti, ovvio) la festa d'Oltreoceano.

Mi chiama Barbara, il mio trait d'union con le ragazze (si', siamo tutte ragazze, va beneee?), per dirmi il luogo d'incontro. "L'appuntamento," mi annuncia, "e' in via del Pigneto."

"E che e'?" chiedo io, pensando che per fortuna qui non c'e' Gabriel, il quale se sentisse mi chiederebbe con quella sua aria odiosamente sardonica: "Ma non sei nata e cresciuta a Roma, tu?"

"E che ne so?" mi risponde Barbara, nata e cresciuta a Roma.

Attacco il telefono e chiedo lumi a mia madre. "Via del Pigneto? Mai sentita," fa lei (si': nata e cresciuta a Roma), poi mi porge un Tuttocitta'. Mentre io e mamma sfogliamo lo stradario febbrilmente e scopriamo che via del Pigneto non soltanto esiste, ma non e' nemmeno tanto lontana, Barbara richiama.

"Tranquilla, ho capito tutto!" mi dice, esultante. "E' facilissimo. Prendi la Tangenziale a San Giovanni, poi esci sulla Prenestina, poi vai verso la Casilina e praticamente sei arrivata. Chiaro, no?"

"Non ho capito niente."

"Va be', usa il Tom Tom. Ciao." Clic.

Ah, il GPS. Mi sembra un'ottima idea. Cosi', chiedo il navigatore a mia sorella e scopro con un fremito di gioia che non e' nemmeno un Tom Tom, ma un modello della stessa marca del mio fedele compagno di viaggio a Los Angeles, l'inseparabile Garmin senza il quale non potrei piu' vivere. Rispetto al mio, pero', vedo subito che questo Garmin e' un po' bizzarro. Intanto, mi chiede, in italiano, di impostare la nazione. Ma che domande fa? "Italia," scrivo perplessa, e mi accorgo subito che la tastiera non e' come quella dei computer, ma semplicemente un alfabeto in ordine, come sei in Italia non esistessero PC e macchine da scrivere. E va be'. Un po' confusa, continuo. "Citta'?" Questa la so. "Roma." Poi inserisco la via, e parto.

Garmin Roma, che ha una suadente voce femminile, comincia subito a farmi scherzetti strani. Sul Lungotevere, mi ammonisce: "Mantenersi -- sulla -- sinistra." Sulla sinistra? Ma io sono tutta a destra! Oddio, adesso come faccio? Qua ci sono dieci miliardi di macchine con guidatori inferociti. Con la certezza che Garmin non sbaglia mai, sfido la folla e mi butto a sinistra, tra strombazzate e stridio di freni. Ce l'ho fatta! Ma all'improvviso, Garmin mi gela, sillabando: "Svoltare -- a -- destra." A destra?? Ma se mi sono appena lanciata dall'altra parte, oltretutto con chiaro sprezzo del pericolo. Ovviamente non ce la faccio a girare a destra, e subito Garmin si stressa. "Ricalcolo," fa con tono annoiato. "Va be'," le dico ad alta voce, "e che sara' mai. Su, ricalcola. Mica morirai." Pero', a differenza di Garmin Los Angeles, un impersonale signore che ricalcola tutto in quattro e quattr'otto e serenamente ti fa svoltare sulla prossima via a ventisette corsie in un mondo tutto a quadretti, Garmin Roma ha da gestire vicoli e vicoletti, e fa la preziosa. Quando finalmente ha ricalcolato, io sono al centro del Lungotevere, in mezzo a un mare di lamiera e in direzione opposta a quella desiderata.

Com'e' come non e', io e Garmin, dopo varie svolte ed errori, riusciamo a rimetterci in carreggiata. A questo punto, ho cominciato a sgamare i suoi metodi. Ho capito le seguenti cose: primo, mai crederle quando ti dice di mantenerti a destra o a sinistra; secondo, e' importante allargare lo zoom della mappa cosi' sai in anticipo dove ti sta portando, perche' Garmin non ti dice mai il nome della via in cui devi svoltare; e terzo, leggere le parole sullo schermo in alto e' inutile e anzi dannoso, perche' Garmin non capisce una mazza di nomi ma vuole fare la figa cosi' se sei, per dire, sul Ponte Sublicio, lei scrivera' scemenze del tipo "Sud-Est sulla Sublicio."

Una volta arrivate al ristorante, io e Garmin abbiamo sfidato la morte tentando di imboccare via della Greca in direzione vietata e rischiato il linciaggio tentando di entrare su via del Pigneto, che e' zona pedonale. Siamo stremate, ma fiere del nostro successo. Io mi sento un genio, perche' sono riuscita a interpretare le arcane indicazioni della Sibilla Navigatrice, e lei, ne sono certa, e' orgogliosa di me.

A questo punto mi rendo conto che il mio Garmin californiano, cosi' chiaro e preciso, senza equivoci, in Italia non potrebbe funzionare. Nel Paese in cui i giornalisti scrivono per enigmi; gli automobilisti preferiscono le marce al cambio automatico; i mariti tradiscono le mogli e le mogli tradiscono i mariti; e il presidente del Consiglio fa finta di voler spacciare la sua squillo per la nipote di un presidente straniero, un GPS diretto e semplice, senza misteri, farebbe ridere i polli. Noi vogliamo faticare, risolvere, leggere tra le righe. Senno', scusate, ma che gusto c'e'?


Friday, November 30, 2012

senzanipoti

Tardo pomeriggio a LAX. Eccitatissima, salgo sull'aereo con destinazione Roma. E per una volta, sorrido all'idea di un lungo volo perche' mi trovo, sconvolgentemente, da sola. Non ci posso credere. Non sto in me dalla contentezza. Gia' pregusto la vacanza a casa, sette fantasmagorici giorni in cui, senza figli al seguito e marito da accontentare, avro' il tempo di dormire, truccarmi, vestirmi, fare shopping, vedere gli amici, magari pure fare la scema con qualcuno, mica per fare niente di male eh, ma cosi', sai, per il gusto di sentirmi giovane... Perche' sicuramente saro' bellissima, con tutto quel tempo a disposizione...

Sogno ad occhi aperti di essere ritornata ragazza e mi vedo sfrecciare in minigonna sul motorino mentre folle di uomini sbavanti fischiano al mio passaggio (cosa ovviamente impossibile per vari motivi, tra cui il fatto che non possiedo minigonne e poi che il suddetto motorino e' in garage, con batteria scarica, da oltre quattro anni). E sogno anche un meraviglioso volo di 11 ore senza ragazzini, durante i quali potro': dormire; guardare tutti i film che voglio; leggere senza interruzioni; e generalmente darmi al rutto libero. Sospiro beata.

Proprio in quel momento, si siede accanto a me un ometto alto un cacio e mezzo, identico, ma dico identico, al defunto Pino Rauti. Per un attimo penso che sia proprio lui, Rauti, che ha fatto finta di essere morto per girare il mondo senza essere scocciato dai politici italiani. Purtroppo non si tratta di un fantasma, che almeno starebbe zitto, ma di un passeggero francese in carne ed ossa e con molta voglia di chiacchierare.

"Buon giorno," esordisce. "Come sta? Io sono stanchissimo. Mi sono svegliato molto presto."

Annuisco e sorrido educatamente, mentre estraggo con grandi e ovvi gesti il mio Kindle dallo zainetto. Lo accendo ostentatamente e guardo in basso. Ho da leggere, vedi? Non mi parlare. Ho da fare con Christian Grey.

Niente. Il simil-Rauti continua. "Mia moglie ha sbagliato a leggere la prenotazione. Pensava che il volo fosse alle 10:45 e mi ha fatto alzare all'alba. Poi ha scoperto che 10:45 si riferiva alla durata del viaggio..."

Interessantissimo. Bella deficiente, tua moglie. Altro sorriso di circostanza, risatina educata.

"Io sono francese, lei?"

"Italiana."

"Va in Italia?"

"Si'."

"E dove??"

Oh Signore. "A Roma."

"Ah, Roma..." Sospiro. "Non ci sono mai stato, sa?" Ma che, te l'ho chiesto? "Ho girato l'Italia in lungo, da giovane, ma da Parigi sono andato direttamente al Sud." Notizia favolosa. Ora che dici, posso leggere?

"Mia moglie sta molto scomoda su questi aerei. Non c'e' spazio per le gambe. Sa, mia moglie e' alta un metro e ottantacinque." Buon per lei. Io sono uno e 55 e pure te, me pare. Mo' te stai zitto? "Anche mio figlio e' molto alto, come la madre." Oddio, adesso misuriamo tutta la famiglia??

Continuo a far finta di leggere, ma le acrobazie sado-maso di Christian e Anastasia mi ballano davanti senza senso. Uffa. Si avvicinano due steward con le bevande e il francese mi da' di gomito e mi sussurra all'orecchio, un po' troppo vicino per i miei gusti: "Dove sono finite le belle hostess di una volta, eh? HA HA HA!"

A questo punto, disperata, ordino una Coca light e rinuncio alla finzione. Spengo il Kindle, che tanto sta solo consumando la batteria, e mi consegno al pazzo ciarliero come una condannata al patibolo. Lui, lanciato, continua felice a parlare. "Sa, io ormai sono cittadino americano."

Fiaccata, cedo e rispondo. "Ah, si'? E da quanti anni vive in America?"

Lui si illumina. "Sono 42 anni. Prima ho vissuto nel Michigan, ma faceva troppo freddo. Poi sono venuto in California."

"Sua moglie e' americana?"

Sorrisone. "Si', si'. Evidentemente ho rimorchiato una turista di troppo per le vie di Parigi, ha ha ha."

Agh. "Eh eh eh."

"Ormai in Francia non si puo' piu' vivere, sa? La situazione politica si e' fatta insostenibile."

"Dice, eh?," chiedo, aspettandomi una tirata su Hollande e i pericoli della sinistra, o su Sarkozy e i pericoli di una moglie italiana.

"La Francia e' in decadenza. Tutta colpa di quell'imbecille." Ah, ecco, ce l'ha con Nicholas. "Quel deficiente ci ha rovinati. Quel cretino. De Gaulle."

De Gaulle? Ha proprio detto De Gaulle? Uh, mamma. Forse avevo ragione all'inizio. E' un fantasma.

Sono senza parole. Non so che rispondere. Che posso dire? "Eh, si', certo, la Quinta Repubblica, che follia. E poi quell'idea di svalutare il buon vecchio franco..." Opto per il Kindle. Abbasso di nuovo il capo e sto per riaccenderlo quando vedo una manina alla mia sinistra che spunta dal sedile dietro al mio. Sento una voce femminile che fa, in italiano: "Amore, lascia stare la signora. Vuoi un pezzo di pizza?" Mi volto e vedo una mamma con due bambinette che mi sorridono. "Guarda che se non la prendi tu la pizza, la prendo io," scherzo, incantanta dalle due piccoline ma soprattutto dall'idea di sottrarmi allo spettro anti-gollista.

La mamma mi racconta che lei e' di Milano e vive a Londra, ma la odia. Ha passato due anni in California prima di sposarsi e le manca tanto. Parliamo delle meraviglie del bel tempo, dei viali con le palme, della vita dolce sulla West Coast. Intanto scherzo con le bambine, chiedo come si chiamano, quanti anni hanno e altre cose del genere.

Esauriti i discorsi con la famigliola, mi volto e mi risistemo la cintura. Il francese, che misericordiosamente aveva preso in mano una rivista, alza gli occhi e mi fa: "Che carine. Sono le sue nipotine? Lei e' la nonna?"

Sento una colonna di ghiaccio nelle vene, poi un fuoco sulle guance. LA NONNA?! LA NONNA? Mi ha dato della NONNAAAAA??? Io questo lo ammazzo. Mi siedo ritta come se avessi una scopa infilata nel sedere, poi lo guardo gelida e dico con le stalattiti nella voce: "Guardi - che - io - ho - bambini - della - stessa - eta'." Poi prendo il Kindle con decisione, tiro verso destra l'interruttore con uno scatto selvaggio e mi tuffo nel letto del maniaco di Seattle.

Toi et moi, M. Rauti', nous avons ferme'. Io e te avemo chiuso. E poi per dieci ore, con il sangue che mi ribolle, lo ignoro senza pieta'.

Tuesday, October 2, 2012

senzabidet/3

Cosi', siamo stati sfrattati. Di punto in bianco, il landlord (il "padron di casa," come diceva mia nonna) ha deciso di vendere la nostra amata casetta e ha annunciato: dovete sloggiare entro 60 giorni.

Ora, a parte la difficolta' di spiegare a mia madre che in effetti fra due mesi ci sbattono fuori ("Ma dai, mica saranno proprio 60 giorni?" "A ma', qua mica siamo a Roma che 60 giorni diventano 60 anni!" "Boh. Sara'. Me pare strano."), nasce il problema di trovare un'altra sistemazione. Siccome io e Gabriel capiamo di mercato immobiliare quanto Berlusconi capisce di femminismo, non abbiamo idea di dove cominciare. Un'amica mi dice che conviene partire dalla Valley e zone circostanti, perche' da quelle parti le case sono grandi e costano poco. Allora noi, confusi come pugili suonati, una domenica mattina saliamo in macchina con i bambini e acriticamente ci dirigiamo verso Glendale, dove sorge un meraviglioso centro commerciale chiamato Americana at Brand.

Dopo quaranta minuti di strade semideserte, affogate dal sole e punteggiate di ristoranti fast-food e distributori dall'aria sbiadita, siamo tutti demoralizzatissimi. L'Americana at Brand, i negozi e le strade carine del quartiere sono ormai alle nostre spalle, e ci stiamo addentrando in una zona desolata, lontana da tutto. Pero' ormai abbiamo un appuntamento e un indirizzo, ci siamo quasi, e allora procediamo coraggiosamente. Finalmente, dopo altri venti minuti, in fondo a una lunghissima strada abbandonata da Dio e dagli uomini, troviamo la casa che abbiamo deciso di visitare. E' un casermone mostruoso a tre piani, tutto di cemento grigio, con una specie di giardino pensile senza recinto, perfetto per accertarsi che i propri figli muoiano entro la prima settimana.

Entriamo, stringiamo la mano all'agente immobiliare, e cominciamo la visita. Io vado nel sotterraneo, mentre i bambini si precipitano al piano di sopra. Cammino lentamente, poi mi fermo e guardo mestamente fuori, sospiro e penso con nostalgia alla mia bella villetta perduta. Improvvisamente, mi arrivano urla selvagge dall'alto.

"Mammaaaaa!! Mammaaaa!! Corri!!!! Vieni subitooooo!!!"

"Che succede?! Chi s'e' fatto male?"

"Vieni qua! Sbrigati!"

Corro di sopra, con Gabriel e l'agente alle calcagna. I bambini sono nel bagno che gesticolano eccitati.

"Che c'e'? Tutto a posto? Dov'e' il sangue?"

"Guarda, mamma, guarda!"

"Che cosa, che cosa?!"

"HANNO UN BIDET!!!"

"No! Ma dai!! Fammi vedere!"

Gabriel, da dietro: "Dai, fagli una foto, Laura, fagli una foto! Per il tuo blog."

"Ha ha, giusto. Eccomi!"

Mentre mi scaravento nel bagno con il telefonino in posizione fotografica, per una frazione di secondo penso che forse, tutto sommato, questa zona di Glendale non e' poi cosi' male. Forse ci possiamo abitare, dai. In fondo il bellissimo mall e' solo a mezz'ora di distanza, la scuola a un'ora di macchina, e che sara' mai. Pero' c'e' il bidet, aho.

Scatto la foto, con Gabriel che mi cinge le spalle affettuosamente e i bambini che ridacchiano felici. Siamo in cerchio, sorridenti, tutti e quattro in contemplazione della rarita' in porcellana. Alzo la testa e con la coda dell'occhio vedo l'agente immobiliare che, dal corridoio, ci osserva sconcertato, con la faccia rigida e un certo terrore nello sguardo. Una famiglia di pazzi?

"Ah ah. Eh eh. Ehm... No, e' che abbiamo visto che avete il bidet..." balbetto.

Nessuna risposta. Occhio fisso. Ghigno.

"E' che io sono italiana... Sa, il bidet, da noi..."

L'agente, un distinto signore brizzolato, si scuote, sbatte le palpebre e tenta un debole sorriso. Chiaramente e' scosso, ma essendo uomo di mondo, sa che in giro c'e' gente di tutti i tipi. Ringraziamo il poveraccio, salutiamo velocemente, prendiamo il biglietto da visita, e ce ne andiamo via dalla periferia di Glendale.

"Va bene. Abbiamo capito che qua e' troppo fuori, non abbiamo bisogno di tornare," fa Gabriel.

Mi sa che ha ragione. Sigh. Ciao, bidet.


Saturday, September 22, 2012

senzabidet/2

A cena. Sara ed io raccontiamo di aver pranzato in un ristorante italiano.

"Sai Gabriel," faccio io, "Sara ha lo stesso occhio clinico nel riconoscere gli italiani che hai tu. Oggi ha dato uno sguardo al cuoco e ha detto, 'Mamma, quell'uomo e' chiaramente italiano.' E infatti, dopo un po' lo abbiamo sentito parlare, e Sara aveva proprio ragione!"

Ale, scettico: "Ah, si'? E come avete fatto a esserne sicure?"

Io: "Be'... si capiva dall'accento, dal modo in cui gesticolava, dalle cose che diceva..."

Ale: "Mah. Avreste dovuto controllargli il sedere."

"Il sedere??"

"Si', mamma, il sedere. Se era pulito, vuol dire che era italiano. Senno', americano." (Pausa) "Sai, per via del bidet."

Appunto.

Friday, September 21, 2012

senzaparacadute

Da quando ha compiuto i 40 anni, Gabriel e' entrato in una spirale di follia giovanilistica. Ha cominciato a proporre giri della California in bicicletta, soggiorni in tenda nei boschi di Yosemite, diete durissime a base di bibitoni proteici e latte di soia. Si alza prima dell'alba e corre per dieci chilometri. Pianifica passeggiate lunghissime nei parchi della citta', da farsi con zaino sulle spalle e bevande vitaminiche in mano. Compra vagonate di mirtilli perche' pare che mantengano il cervello funzionante. Io, pero', non gli do alcuna soddisfazione. Ho infatti deciso di invecchiare con eleganza perche' l'altra opzione e' troppo faticosa, quindi generalmente lo osservo con occhi semichiusi da sotto le coperte mentre lui fa stretching ansimando sulla moquette.

Dai e dai, tra un sonnellino e l'altro, mi sono resa conto che al pover'uomo rispondevo sempre di no. Cosi', quando quest'estate, al mare a Santa Monica, Gabriel mi ha mostrato estasiato un paracadute giallo che volteggiava sopra di noi, mormorando: "Me la regali una gita cosi' per il mio compleanno?," ho pensato che fosse arrivato il momento di accontentarlo.

Una veloce ricerca su Internet, una telefonata, il numero della carta di credito e voila', il regalo e' fatto. Prenotata una gita in barca al tramonto con "parasailing," partenza a Marina del Rey alle cinque e trenta di sabato pomeriggio. E quando la centralinista mi chiede: "Salite in due sul paracadute, o sale soltanto suo marito?," mi sento punta sul vivo. Siamo donne o caporali, diamine? Possibile che debba sempre fare la figura della fifona? Possibile che debba sempre ricordare al mondo che Gabriel e' piu' giovane e atletico di me? E se poi si cerca una ragazzina magra e coraggiosa, disposta ad avventure sportive di ogni tipo? Ah, no, eh. Stavolta gliela faccio vedere io. "No, siamo in due," annuncio con decisione nella cornetta. "Ottimo, signora. Ci vediamo sul molo, puntuali." Mentre chiudo il telefono, ho un attimo di dubbio. Sara' il caso? Non saro' stata troppo frettolosa? Non e' che poi muoriamo tutti e due, lasciando due poveri orfanelli? Quando comincio a respirare in iperventilazione, decido di calmarmi e mi dico che mancano due settimane e quindi, inutile agitarsi adesso. Posso sempre disdire.

Poi pero' non disdico affatto, anche perche' Gabriel si mostra entusiasta del regalo e ancora di piu' del fatto che ho deciso di unirmi a lui, invece di restare a terra come pensava. A questo punto, non ho il cuore di deluderlo. E' cosi' contento e orgoglioso di me... E poi, la verita' e' che tirarmi indietro adesso sarebbe un'umiliazione senza confini. Impensabile. Quindi tento di autoconvicermi che andra' tutto per il meglio. Penso: e va be', in fondo, che sara' mai? Il volo dura soltanto dieci minuti, saremo sospesi sul mare quindi non possiamo sfracellarci, e saremo ben ancorati, con tanto di salvagente. A questo punto visualizzo un'esperienza tipo scalata turistica dell'Empire State Building, con panorama spettacolare e vento freddo sulla faccia. Se po' fa.

Arriva il fatidico sabato e io e Gabriel partiamo per il mare -- in gran segreto, perche' se lo diciamo a Sara, che in quanto a serenita' ha preso tutto da me, quella chiama direttamente le pompe funebri. Arriviamo e tutto appare perfetto: il mare e' calmo e blu cobalto; il cielo e' terso; tira una leggera brezza; e il tramonto si avvicina languido. Sono un po' spaventata ma orgogliosa di aver superato le mie paure. Sara' un'esperienza bellissima, mi ripeto ossessivamente. E poi, se non altro Gabriel notera' il mio estremo coraggio di donna degli anni Duemila, e cosi' saro' al riparo dall'insidia di amanti ventenni, energiche, avventurose. E lui forse la piantera' di descrivermi come una pusillanime che scappa anche di fronte alla propria ombra, ecco!

Saliamo sul motoscafo assieme a diverse coppie, tutte alla ricerca -- come noi -- di un momento romantico ed eccitante, da ricordare per tutta la vita e raccontare ai nipotini. Si arrampicano inoltre sulla barca: un terzetto di ragazzi indiani (due uomini e una donna dalle gambe pelosissime); due ciccione con un amico, pure lui ciccione; e infine una ragazza slanciata la quale, inspiegabilmente per me che lo faccio esclusivamente per farmi lodare da Gabriel, e' venuta da sola. Il capitano ci assicura che sara' tutto facilissimo e divertentissimo, poi spara musica house a palla, e partiamo veloci verso l'orizzonte, guardando il sole in bilico sulle onde.

Gli indiani vengono selezionati per salire sul paracadute per primi, tutti e tre insieme. La donna, piazzata al centro, indossa una chiara smorfia di terrore, ma finge di sorridere. I tre ragazzi vengono imbracati, chiusi nel salvagente, e fatti sedere spalle al mare con un enorme paracadute giallo appeso dietro. Poi il motoscafo improvvisamente prende velocita' e, con uno scatto, il terzetto sale rapidamente verso il cielo, urlando e ridendo. Be', rifletto, e' come il luna park. Se ho sopportato Disneyland, posso sopportare anche questo.

Quando tocca a noi, infilo le gambe nell'imbracatura di tela e leggo l'avvertenza: "Attenzione. L'equipaggiamento che state per indossare e' pericoloso. Il suo uso puo' provocare la perdita della vita e degli arti." Gulp. Se non mi ammazzano, mi trasformano in un tronco umano? Mi volto verso Gabriel, il quale mi sorride tutto innamorato, e dice guardandomi romanticamente negli occhi: "Hi, baby. Ready to fly with me?" Che devo di'? Gli sorrido a cinquanta denti, gli prendo la mano, e dico: "Of course." I due marinai ci posizionano sul bordo del motoscafo e, dopo un attimo di immobilita' quasi irreale, di colpo ci sentiamo trascinare indietro e in alto con una specie di whoosh nelle orecchie. Poi saliamo velocemente, cosi' velocemente che nel giro di dieci secondi non sentiamo piu' l'orrenda musica del capitano deejay ed entriamo nel silenzio del cielo e delle nuvole, tra le quali ci dondoliamo piano piano. Gabriel e' incantato. "Che silenzio. Che vista bellissima. Com'e' rilassante stare quassu'. Eh, tesoro?"

Non rispondo, perche' sto tremando come una foglia. Mi sono resa conto che piu' che seduta, sono appesa nel vuoto, in equilibrio precario. Mi vedo mentre lascio andare l'imbracatura per salutare e, non avendo forza nelle gambe, cado all'indietro e a testa in giu', come quei pupazzetti di legno con il pulsante sotto ai piedi che si comprano in montagna. Cosi', per evitare di cappottarmi, stringo i nastri di tela con tutta la forza che ho nelle mani, al punto che le braccia mi fanno malissimo e comincio a sudare copiosamente sotto al salvagente. Ho le gambe rigide, tese in avanti come le Barbie degli anni Sessanta. Guardo in basso e a momenti svengo. Siamo ad almeno cinquecento metri! Terrore!!!

"Amore, dammi la mano," fa Gabriel, tutto soave. Mi sfiora un dito e io giro la testa di scatto a sinistra, come un serpente a sonagli. "Non mi toccare," intimo con voce da baritono. Gabriel mi guarda allarmato. "Che c'e'? Hai paura?" "Paura? Macche' paura. Sono terrorizzata." Risatina. Infame. "Ma dai, lasciati andare, dammi la mano." "Ma per piacere. Sta' zitto, piuttosto." "Guarda, guarda, vedo casa di A!!" fa lui, tutto contento, indicando l'abitazione di una nostra amica sulla destra. Non mi giro nemmeno. Ho paura che se muovo il collo perdero' l'equilibrio e mi ritrovero' appesa tipo Cirque du Soleil. Sono praticamente di marmo. "Sta' zitto, t'ho detto. Non mi parlare. Non mi toccare. Non fare niente. Dimmi solo quanto manca alla fine di quest'incubo. Quando scendiamo? Quanti minuti sono passati? Oddio, oddio oddio, hai visto il mare quant'e' lontano? Oddio oddio oddio... MA CHE FAI?! SEI IMPAZZITOOO? SMETTILA SUBITO DI FARMI PIEDINO! NON MI TOCCAREEEE!!"

Gabriel ride e mi lascia stare. Rimaniamo in silenzio per un paio di minuti, finche' il vento si fa piu' forte, sempre piu' forte. Un po' troppo forte. Iniziamo a ondeggiare. Gabriel e' contento: "Hoo hoo! Divertente." "Divertente un par di pa-" comincio io, ma mi blocco perche' mi assale un'ondata di nausea. Il venticello continua a darci colpetti di qua e di la', e a ogni whoosh la nausea mi sale di una tacca, finche' comincia a girarmi la testa e ho l'improvvisa visione di me stessa che svomitazzo a 500 metri d'altezza  direttamente sulle capocce dei poveri turisti -- e di quegli smargiassi del capitano e del secondo che, con le loro abbronzature e i loro cappelletti da baseball messi all'incontrario, tutto sommato se lo meriterebbero pure. Che vergogna, pero'. Sono mortificata. Tento per un po' di mantenere una parvenza di dignita', ma quando il paracadute scende svelto svelto e il marinaio ci fa le foto di rito (le abbiamo comprate in anticipo, prezzo 25 dollari), strabuzzo gli occhi, gonfio le guance e non riesco nemmeno a sorridere. Gabriel agita la manina, saluta l'obiettivo, mi fa, "Dai, amore, saluta anche tu." Non dico niente, non lo guardo proprio, ma quello che sto pensando e': "Devi mori'."

Finalmente ci tirano giu'. Atterriamo, plop, di sedere e io subito cado in avanti come un corpo morto. "Tutto bene?!" fa il capitano, sorreggendomi per le ascelle, poi aggiunge: "Sai, avete beccato il giro piu' agitato di tutti, mi spiace, c'era un sacco di vento..." Non gli rispondo nemmeno, primo perche' lo odio, e secondo perche' se apro la bocca adesso, su quella barca si ricorderanno di me per molti e molti anni.

Il resto della gita, con tutte le altre coppie che salgono in cielo tra gridolini, sorrisi e pacche sulle spalle, passa confusamente, come un brutto sogno. A ogni sosta al largo, la nausea mi riassale e io mi giro verso l'esterno, scossa da conati pazzeschi. Per tutto il tempo evito strenuamente lo sguardo degli altri, ma so che mi fissano tutti, sgomenti, temendo un'esplosione di slime da un momento all'altro. Quando si e' ormai fatto buio, finalmente ritorniamo sulla terraferma. Ma per me non e' finita. Saliamo in macchina, andiamo a casa, e fino a mezzanotte io continuo a gemere e vomitare.

Quando finalmente mi trascino carponi sotto le coperte tossendo debolmente, Gabriel si spaparanza accanto a me con l'aria trionfante del sultano. Mentre io abbracciavo il cesso, infatti, lui ha concluso la serata sbafandosi un piatto di riso indiano davanti alla TV, tifando per la sua squadra di college football che sconfiggeva, in casa, i nemici storici. Si sente padrone del mondo. In piu', crede di essere spiritosissimo. Mi fa, allungandosi verso di me per abbracciarmi: "Allora, amore, ha ha ha, per il prossimo compleanno ci buttiamo da un aereo."

Estraggo la testa dal piumino come una tartaruga. Allungo il collo, lo fisso con occhio vitreo, poi rientro nel guscio bofonchiando: "Fatti un'amante, e fattela giovane. A quello servono, le amanti. A me, da adesso in poi, mi lasci stare."

Poi mi divincolo dalle sue braccia, mi giro, faccio un altro paio di conati, e mi addormento di colpo.

Tuesday, September 11, 2012

senzabebe'

In macchina con i miei figli. Destinazione Petco, ipermercato di prodotti per animali. Guido tranquilla, soprappensiero, ascoltando musica di vent'anni fa.

Sara, a bruciapelo: "Scusa, mamma, ma e' vero che per far nascere i bambini, il papa' e la mamma..." (segue agghiacciante descrizione anatomicamente corretta)

Sono presa alla sprovvista. Non so che cosa rispondere. Per guadagnare tempo, deglutisco. Aggiusto il volume della radio. Fingo di dover fare una difficile manovra per svoltare a sinistra. Intanto penso furiosamente. Mentire? Ricorrere alla cicogna? Cambiare discorso? Proporre di chiederlo alla maestra? Mi domando infine: che cavolo avrebbero fatto i miei genitori?

Quando avevo circa sei anni, ricevetti un libro molto carino, ben illustrato, dal titolo "Come nascono i bambini." Il piccolo volume narrava didatticamente il processo riproduttivo dei fiori, dei pesci, delle galline, dei cani e, alla fine, delle persone. I disegni erano molto belli e per questo motivo il libro mi piaceva parecchio. Del contenuto, sia chiaro, non capivo assolutamente nulla. Ciononostante, ogni pomeriggio costringevo la povera Zia Adalgisa a leggermelo. Lei, che era burbera e romana ma mi adorava e non sapeva dirmi di no, ogni volta protestava: "Ma te devo sempre legge ste zozzerie!? Ma nun ce l'hai 'nartro libbro? Certo che tu' madre, ma che te va a compra'... Boh. Saro' io, che so' vecchia... Ste zozzerie." Io non capivo perche' si scaldava tanto, aspettavo che finisse lo sfogo e poi mi accovacciavo contenta in poltrona accanto a lei per ascoltare affascinata, per la centesima volta, le gesta amatorie di galli, salmoni e fiori.

Lasciamo stare i metodi obliqui (e un po' vigliacchi, diciamocelo) dei miei. Qua c'e' stata la domanda diretta. Serve una decisione fulminea. Opto per una confessione piena.
"Si'," ammetto, coraggiosamente.
Risate isteriche e urla selvagge dal sedile posteriore.
"Aaaagh! Che schifoooo!!! HA HA HA!"
"Io i figli non li faro' mai!"
"Nemmeno io! In caso, li adotto!"
"HA HA HA!
"BLEAH!"
Rumori di finti conati, altre risatine, altri urli.

Poi pausa. Silenzio.
Sara: "Ma scusa mamma, quindi tu e Daddy..."
Per fortuna sono di spalle, cosi' quelle due serpi non possono vedermi diventare rosso pompeiano.
Di nuovo, la sciagurata rispose. "Ehm. Per far nascere voi." Bella scusa.
Riprendono gli strilli e le risa.
"Tu e Daddy?! Ma che schifooooo!"

Decido che c'e' un limite anche alla mia apertura mentale. "Saranno fatti miei, che dite? E poi, sentite, basta con le domande. Siamo arrivati. Prendete il secchiello della lettiera e andiamo a comprare i bocconcini per il gatto."

Infatti, come Dio ha voluto, siamo finalmente arrivati al parcheggio di Petco. Spengo la macchina, e per cambiare velocemente discorso, parlo ad alta voce di gelati, giochi elettronici e bambole con un entusiasmo quasi maniacale, mentre conduco velocemente i bambini all'interno del negozio. Penso: uff, pericolo e' passato. Tiro un sospiro di sollievo. Se ne riparla tra cinque anni.

Una volta arrivati al centro del supermercato, Ale, che non apriva bocca da qualche minuto, si scuote come da un lungo sonno e urla, fortissimo: "Ma allora, mamma, vuol dire che per farmi nascere, TU E DADDY..."

Il resto non l'ho sentito. Sono svenuta.


Monday, August 27, 2012

senzaaudizione

Domenica mattina da Target, diabolico grande magazzino in cui si trova di tutto e si finisce sul lastrico. I miei figli discutono animatamente nella corsia giocattoli, quando una bellissima ragazza nera si avvicina e, rivolta a me con uno smagliante sorriso, mi chiede: "Sono figli tuoi?"

"Eh?!"

"Dicevo: sono figli tuoi?"

Sono confusa. Mi guardo intorno. Che vuole questa? Mi conosce, forse? Ci siamo gia' incontrate? "Be', si'," ammetto con riluttanza.

"Sono bellissimi, sai?"

Sara e Ale smettono di bisticciare e la guardano a bocca aperta. Io non so che cosa dire.

"Hai mai pensato di fargli fare dello spettacolo?"

Ah, ecco, me stai a da' la sola. "Ehm... Veramente..."

La ragazza, sempre sorridendo, tira fuori un biglietto dalla borsetta e lo porge a Sara. "Domani sera ci sono audizioni gratuite a Century City. Portate questo invito e potrete partecipare. Vedrete, andra' bene! Siamo un'organizzazione seria. Rappresentiamo un sacco di celebrita'. Venite! Vi aspetto!" Altro sorriso luccicante, e la bellona se ne va.

Sara legge il foglietto: "Mamma, qua c'e' scritto che Zach e Cody hanno cominciato da loro. E pure Justin Bieber."

"Si'? Boh. Sara' vero, tesoro?" azzardo, non volendo dire quello che penso davvero.

Sara fa spallucce e studia il foglietto. Intanto continuiamo a girare per il magazzino con il carrello. Nel reparto Cibo per Animali, si avvicina una signora bionda e abbronzata, molto chic in un abito bianco senza maniche. Si rivolge a Sara: "Come sei elegante! Che bel vestito. E come sei bella." Di nuovo, restiamo interdetti. La signora continua: "Vuoi fare dello spettacolo?" Intervengo io: "Signora, grazie, ma la sua collega ci ha gia' invitato." "Ah, avete parlato con Simone? Benissimo! Allora ci vediamo domani sera."

Ale e' furioso. "Perche' quella ha detto solo a Sara che era bella? E io?"

"Ma amore, l'altra ha detto che eravate belli tutti e due..."

"Ma questa invece non mi ha nemmeno guardato! Vuol dire che io sono brutto e Sara e' bella! Sara e' sempre piu' importante! Io sono sempre il piu' piccolo, quello che conta di meno! SOB SOB SOB!!"

"Ma no, piccolino mio, sei bellissimo! Forse quella li' non ti ha visto..."

Sara: "E poi, Ale, forse cercano solo femm--"

Si avvicina ancora la stessa donna bionda e attacca, sempre rivolta a Sara: "Che bel vestito che hai... Come sei elegante... E come sei bella..."

"Signora, senta." faccio io spazientita, "Gia' ce l'ha detto. Gia' abbiamo..." Mi blocco. La guardo meglio. Ha un vestito fantasia, rosa e azzurro. Non bianco. Ma che succede?  Si e' cambiata in meno di due minuti? "Abbiamo... abbiamo..." Illuminazione. "abbiamo gia' parlato, credo, con la sua sorella gemella."

La bionda sorride felice: "Ah si'?! Avete conosciuto Annie?"

Perche', ce n'e' una terza? "Ci ha gia' parlato dell'audizione," taglio corto, allontanandomi decisa.

"Bene, bene. Speriamo di vedervi. Sua figlia e' bellissima. Deve assolutamente venire."

Sara e' rossa di imbarazzo e piacere. Ale d'invidia. Scoppia a piangere. La signora mi guarda terrorizzata. "No," spiego, sperando capisca al volo, "e' che tutti dicono che la sorella e' bella, e anche lui vorrebbe..."

"Ma tu hai bellissimi capelli," fa la signora rivolta ad Ale, indietreggiando impaurita (e peggiorando le cose). Ale ulula: "I capelli?? I CAPELLIIIIII? SONO BELLI I CAPELLI? E IO? NON E' GIUSTOOOOO! SOB SOB SOB."

Quando finalmente Ale si calma, Sara si mette una mano sul petto. "Mamma, ho l'ansia. Promettimi che non dirai a Daddy di questa cosa dell'audizione."

"Eh? Ma perche'? Daddy si fara' una risata."

"No, mamma!! Lo sai lui com'e' moralista. Sara' contrario e tutto serio. NON GLIELO DIRE. Giura!!"

Ecco. Meno di trenta secondi nel mondo dell'entertainment e gia' la mia famiglia e' traumatizzata da gelosie, faide e segreti. Poi dice che da grande uno se droga.


Friday, August 24, 2012

senzamamma

Quand'ero piccola io, la minaccia classica del genitore medio era: "Guarda che ti mando in collegio." Il pensiero di tutti andava subito al terrorizzante Giornalino di Gian Burrasca, sceneggiato anni Sessanta in cui Rita Pavone in versione cross-dressing incarnava le piu' profonde paure del bambino italiano: vita lontano da mamma e alla merce' di direttrici cattive, con disciplina ferrea, letti durissimi e cibo disgustoso. D'estate, il luogo di deportazione immaginario diventava la colonia, presumibilmente perche' i collegi erano chiusi. "Se non stai buono, ti mando in colonia!" sbraitavano le mamme in spiaggia, unte con litri di Bain de Soleil. E i bambini, tremando come foglie, obbedivano e supplicavano di essere risparmiati.

Ora, si da' il caso che a Santa Severa, paesino nei pressi di Roma dove andavo in vacanza io con la mia famiglia, c'era proprio una colonia. Una colonia vera. Era come abitare accanto a Rebibbia. Vedevi cose che gli umani non possono nemmeno immaginare. Alle nove di mattina, per esempio, ti capitava di incappare in tristi gruppi di piccoli prigionieri pallidi come cenci, a capo chino e vestiti di tutto punto, che camminavano mesti verso la spiaggia in fila indiana al seguito di una suora con il cappellone bianco stile Fracchia la Belva Umana. Li vedevi, e pensavi: chissa' che avranno fatto. Saranno criminali incalliti. Alle 11, ora della merenda in spiaggia, i piccoli detenuti erano gia' spariti. Saranno rientrati, immaginavi deglutendo, nelle loro celle. A mangiare, e' ovvio, pane e acqua.

In America, invece, ho scoperto che i bambini VOGLIONO andare in colonia. Almeno cosi' dicono. Qua si chiama Sleepaway Camp, costa una fortuna, e ti strappa via i figli per settimane. Dopo averla scampata per anni, quest'estate anche la mia famiglia e' stata colpita dal morbo. Mia figlia Sara ha annunciato, in primavera, di voler andare al camp con un'amichetta. Mi ha spiegato che tutte le sue amiche ci vanno, alcune per sei, sette, perfino otto settimane. Una va in Canada, un'altra nel Maine, una terza nel Parco di Yosemite. Sara, bimba saggia, ha detto che Malibu, a pochi chilometri da Los Angeles, le sembrava un buon posto per cominciare.

Io ho esitato e borbottato per un po', ma sono stata subito messa a tacere. Gabriel, eccitatissimo, m'ha perentoriamente spiegato che la devo smettere di fare la mamma italiana. Le mamme italiane, ha detto, creano figli pappemolli. Ai suoi tempi, ha proseguito, i superpotenti bambini americani partivano per il camp a piedi, gia' pochi giorni poco la nascita, con uno zaino pieno di pietre sulle spalle. A due anni gia' piantavano la tenda da soli, nella neve, con i denti. A sei andavano a cavallo e radunavano le mandrie di bisonti nel Far West. E' cosi', temprando le giovani generazioni, che si e' creata una grande democrazia, mi hanno poi spiegato le zie, i suoceri, gli amici. E' cosi', bella mia, che si va sulla luna e si conquista il mondo. Mica tenendo i ragazzi nella bambagia, sbucciandogli la frutta per merenda, aiutandoli a farsi il bagnetto la sera, tenendogli la manina prima di dormire. Quegli smidollati mamma's boys che avete voi.

M'hanno convinto e ho accettato. Gabriel si e' occupato dell'iscrizione e della visita medica (come per il militare) e mi ha informato che la partenza sarebbe avvenuta il 6 agosto. Dopodiche', e' tornato alle sue cose. La mamma italiana pappamolle si e' quindi dovuta occupata di tutte le quisquilie, tra cui: stampare la "packing list," cioe' l'elenco delle cose da portare; ordinare su Internet gli adesivi con il nome che sono d'obbligo per qualunque camper che si rispetti; trovare sandali da doccia con il cinturino sulla caviglia perche' le normali infradito sono vietate; lavare tutti gli indumenti in tempo per la partenza. Dopo due settimane di acquisti febbrili, ricerche online e lavaggio di mutande, ho telefonato al camp per fare un paio di domande sulla logistica.

"Buongiorno, chiamo per fare qualche domanda. Mia figlia sara' al vostro camp dal 6 agosto e --"

"Dall'8 agosto."

"Come dice, scusi?"

"Dall'8 agosto, signora. La sessione comincia l'8."

"No, guardi, si sbaglia, mia figlia e' iscritta per il 6. Noi siamo pronti per il 6."

"Interessante, signora. Qua pero' cominciamo l'8."

Imbarazzo totale. Che vergogna. Tutta colpa del senzabidet, ovviamente. Tento, pateticamente, di buttarla sul ridere. "Eh eh eh. Meno male che ho telefonato, eh?"

Con voce serissima. "Gia'. Allora, voleva chiedermi, signora?"

La sera del 7 agosto, sono nel panico. Le valigie sono chiuse, il sacco a pelo arrotolato come un hot dog, i vestiti per domani pronti sulla spalliera della sedia. Sono terrorizzata. Davvero mando la mia bambina a stare con un branco di sconosciuti?? Pero', eroica, fingo di fronte a tutti. Falsissima, sorrido ostentando tranquillita', e intanto penso convulsamente, come un'invasata, a tutte le tragedie che potrebbero avvenire. "E se al camp Sara perde il suo orsetto preferito? E se la rapiscono? E se un terrorista entra nel camp e spara su tutti i bambini? E se un pedofilo la molesta? E se una bambina pazza la uccide nel sonno? Aaaah!"

Mentre tento di calmarmi e ragionare, Sara va in crisi di suo. "Ti prego, mammaaaaaa, non costringermi ad andare!!!"

Io?? Mo' so' io che ti costringo? Ma ve possino, a te e tu' padre... "Stai tranquilla, amore, vedrai che dopo i primi due o tre giorni ti abituerai e starai benissimo. Ti divertirai tantissimo, te lo dico io. Io alla tua eta' avrei tanto voluto andare al camp." E, te dico. Manco morta.

"Ma mi mancherai tanto!!! E se perdo il mio orsetto?"

So' cavoli amari. "Ma dai, e perche' devi perderlo? Non succedera'. E poi, per sicurezza, mettilo in un posto sicuro."

"Aaaaaah, allora lo vedi che significa che POTREI perderlo? Perche' dici di metterlo in un posto sicuro?? Che vuoi dire, che forse me lo rubanoooooo???"

"Ma no amore, anzi, volevo rassicurart--"

"SOB SOB SOB!! E SE MI RAPISCONO? E SE UN MANIACO ENTRA E MI AMMAZZA? E SE UNA BAMBINA PAZZA MI UCCIDE NEL SONNOOOOOO???"

Finalmente Sara si calma e si addormenta, e io mi scaravento di testa nell'armadietto del bagno alla ricerca di una vagonata di Valium.

Il giorno dopo, la casa sembra la spiaggia l'ultimo giorno d'estate. Sempre uguale, ma vuota, irreale, stranamente silenziosa. Ale, stravaccato senza energia davanti alla TV, mi apostrofa: "Mamma, facciamo una copia di Sara, cosi' ce la teniamo qui?" "Buona idea, amore. Gia' che ci siamo, facciamone una versione che ti tratta un po' meglio." E lui: "Nah. Non mi interessa. Io voglio Sara e basta." Piu' tardi, a cena, mastica meditabondo, poi dice: "Sai una cosa, mamma? Io non posso vivere senza Sara." Glop. Gulp. Io e Gabriel ci guardiamo coi lucciconi.

Dopo due giorni, arriva la prima lettera. "Cara mamma, sento moltissimo la nostalgia di casa. Ti prego, vieni a prendermi. SUBITO!!! Baci, Sara."

Ecco fatto. Corro a controllare il sito Web del camp, sul quale in teoria i genitori possono vedere foto e video dei figli in azione. Scorro da una foto all'altra, e dopo averne viste oltre 600 concludo che mia figlia e' stata rapita dagli alieni e scambiata con una coppia di gemelli identici ciccioni e dai capelli rossi che appaiono in tutte le pose possibili e immaginabili.

La prendo con serenita'. Dopo una lite furibonda con Gabriel, il quale sostiene che l'assenza di nostra figlia sia "normale," ("NORMALE??? MA SEI DALLA PARTE DEI GEMELLI CICCIONI, O DALLA MIAAAA???"), scrivo un'equilibrata lettera di lamentele al camp, in cui annuncio che sono in preda all'ansia e devo assolutamente vedere mia figlia. Poi chiamo la madre dell'amichetta di Sara, anche lei desaparecida dalle foto, e lei subito mi dice: "Ma quante foto dobbiamo vedere di quei due ciccioni rosci?? Ho scritto al camp." AHA, dico a Gabriel. LO VEDI CHE NON SONO PAZZA? Ha scritto anche lei. Lui fa un ghigno, poi si allontana guardandomi fisso e rasentando i muri come un agente dell'FBI in fuga dal serial killer.

La segretaria del camp mi scrive il giorno dopo scusandosi, e mi assicura che oggi mandera' il fotografo a cercare Sara. Infatti, la mattina seguente appaiono le foto. Sarebbe stato meglio non vederle. Sara c'e' e ha una faccia da funerale. In una sembra che pianga. GLOP. SOB. Ne parlo con mia madre, la quale dice senza esitare: "Valla subito a prendere." "Ma no, mamma, qua non si usa cosi', qua i bambini vanno temprati..." "Ma se piange?!" "Eh, lo so..." rispondo debolmente. "Dice che cosi' crescono meglio..." "Boh. Se lo dici tu."

Finalmente i dodici giorni passano. Sara torna a casa, e subito si lancia in un elenco delle sofferenze patite. "Mamma, guarda, ho pianto TUTTI I GIORNI. Sentivo tanto tanto tanto la nostalgia di casa. Non sai! Tu avevi detto che dopo due o tre giorni mi sarei sentita meglio, invece ero SEMPRE triste. Anche l'ultimo giorno, ho pianto."

"Amore di mamma! Mi dispiace, piccolina mia!! Allora, l'anno prossimo non ci vuoi andare piu'?"

Sara mi fissa sbalordita. "No, no, che hai capito. Certo che ci voglio andare."


Wednesday, August 22, 2012

senzacittadinanza

Oggi mi sono alzata, e mentre ingollavo una brodaglia beige vagamente somigliante al caffe', ho mangiato due pancake con sciroppo d'acero. Poi sono andata al computer e ho scaricato e stampato due coupon-sconto per un bowling nella San Fernando Valley. Quindi sono salita in macchina e ho portato mio figlio a giocare con le bocce e i birilli. Per pranzo ho ordinato hamburger, patatine e Coca-Cola in un diner annesso al bowling. Per dolce mi sono sparata un brownie al cioccolato (fatto in casa ma con un mix simil-Cameo comprato al supermercato).

A questo punto, io dico: ma ancora parliamo di documenti, richieste, domande in carta bollata? Io voglio la cittadinanza americana ad honorem. Me la merito, tutta e subito.

Monday, August 13, 2012

senzaostia

Sabato pomeriggio. Un amico di Roma in visita in California mi da' appuntamento sulla spiaggia di Santa Monica. Da casa mia, il traffico e il tempo impiegato sono uguali identici a quelli di un qualunque dopopranzo del fine settimana sulla via del Mare. Macchine a passo d'uomo, figlio ululante sul sedile posteriore (la figlia e' in colonia, poi vi racconto), marito alla guida che sbuffa. Anche l'ambiente all'arrivo e' piu' o meno lo stesso che a Ostia Lido. Sole cocente, carnaio sulla riva, bambini che strillano, gabbiani che svolazzano. Dopo varie telefonate di ricerca, trovo l'amico che si sbraccia in mezzo ai corpi sudati e gli vado incontro, mentre rifletto che forse non c'era bisogno di venire dall'altra parte del mondo per sciogliersi insieme a un branco di gente seminuda su un simil-litorale laziale.

"Ha ha, ce sei venuto da Roma per passare un pomeriggio stile Torvajanica!" dico al mio amico a mo' di saluto. "Te pensavi che Santa Monica fosse come Baywatch, eh? E invece, ecco qua!"

"Be', dai, qua forse sono un po' piu' educati..." azzarda lui.

"Certo," faccio io, "e' vero che qua abbiamo i surfisti biondi, le palme, l'Oceano Pacifico invece del Tirreno sporco, la musica dei Beach Boys al posto di Tiziano Ferro, i campi di beach volley... Pero' il casino e' lo stesso, dai."

Il mio amico si guarda intorno, poi fissa lo sguardo su un terzetto proprio dietro di noi. Due attraenti bionde sedute sui teli chiacchierano con un giovane dal cranio rasato, accovacciato davanti a loro, con un asciugamano annodato attorno alla vita come un pareo. Il ragazzo e' proteso verso le due bellezze, e si rivolge a loro con tono confidenziale, guardandole negli occhi, prima una, poi l'altra. Classica posa da rimorchio selvaggio.

Nel vento sul bagnasciuga, mi arrivano solo spezzoni di discorso, ma mi sembra di sentire le parole  "model" e "Hollywood." Il mio amico, con un sorriso beffardo, indica i tre: "In effetti, mi sa che hai ragione tu, qua e' proprio uguale all'Italia. Poi dice che gli americani sono diversi. Questo sta a fa' il lumacone, proprio come a Roma. Je sta a di': 'Esci co' me, te faccio fa' der cinema...'" Ridiamo compiaciuti. E' bello sapere che anche a Santa Monica ci sono i rimorchioni da spiaggia, tali e quali a quelli in azione a Ladispoli.

Il mio amico entra in acqua. Io mi accomodo sul telo con un libro, a meno di un metro di distanza dalle ragazze e il loro corteggiatore. Da cosi' vicino, li sento chiacchierare con chiarezza, e non posso non accorgermi subito che il ragazzo ha un chiaro accento straniero. Sicuramente non e' americano. Lo guardo meglio. Testa pelata, asciugamano firmato, collanina... Oddio mio...

Ma dai, non e' possibile. Non sara' mica...

Come se mi avesse letto nel pensiero, il giovane si volta verso di me, e poi, apostrofando un altro ragazzo con la testa rasata alla mia sinistra, dice forte: "Cam heng aut." Mi si gela il sangue.

E l'amico, in italiano: "Va bene, arrivo. Porto la roba li'?" Poi, alle due bionde: "Ui ar from Turin."

Ah, ecco. Te pareva.


Sunday, July 15, 2012

senzaricetta

"Gabriel, mi fai un piacere?"
"Dimmi."
"Ho finito la medicina per l'allergia, puoi chiamare il medico e chiedergli di farmi la ricetta?"
"..."
"Allora?"
(con voce gelida e grondante disapprovazione)"Non posso farlo. Devi chiamare tu."
"E perche', scusa?"
"La medicina e' per te."
"Embe'?"
"Mica posso farmi fare una ricetta a nome tuo."
"No? Non te la fa, il medico? OK, allora falla fare a nome tuo."
"MA SEI IMPAZZITA? Significherebbe mentire."
Euh. Come si scalda. E che sara' mai. "Esagerato!"
"Per niente. Guarda che e' UN REATO!"
(Gulp) "Ma amore, tu usi la stessa medicina..."
"Si', ma adesso non mi serve. Serve a te. E' una questione di onesta'."
Ed e' cosi' che capisci che: 1) tu sei fondamentalmente disonesta fino al midollo perche' farsi fare una ricetta per qualcun altro non ti sembra nemmeno una questione di cui discutere; 2) tuo marito rimane un mistero incomprensibile; e 3) il tuo medico della mutua di Roma dovrebbe passare il resto della vita a San Quintino.

Sunday, July 1, 2012

senzamario


E' il giorno della finale. Il bidet, in vacanza dai suoceri a New York, con prole, cugini, zii e zie, decide (alla faccia di tutti parenti) di andare a vedere la partita in un bar di Soho. Gli ingredienti ci sono tutti: articolo di due pagine su Balotelli sul New York Times da leggersi durante la colazione; spuntino di mezzogiorno; poi appuntamento alle 2 a Spring Street con un'amica italiana, residente a New York e dotata di fidanzato israeliano filo-Azzurri; e naturalmente, Gabriel come accompagnatore.

L'unico ostacolo e' che i bambini sono stati invitati dalla zia a vedere il Re Leone a teatro. Ci sono quattro biglietti in totale: un genitore appare condannato ad accompagnare.

Io declino subito l'invito con eleganza: "Per me potete pure mori'. Io vado a vedere la partita."

"Va bene," fa Gabriel con l'aria da martire. "Li porto io."

Io, indicando mio suocero: "Be' scusa, amore, ma non possiamo costringere tuo padre?"

Gabriel si illumina. Ci voltiamo entrambi e fissiamo il pover'uomo.  Preso alla sprovvista, mio suocero tenta una timida fuga in cucina, poi china il capo, rassegnato. "Ma, se volete... potrei..." balbetta.

"Ottimo. Allora e' deciso. Vai tu." E' fatta!

Ma Sara non e' d'accordo. Vuole assolutamente un genitore come chaperone. Si lancia sul letto in urla selvagge, minaccia il suicidio, il patricidio e il matricidio, infine il fratricidio. Poi scuote la testa come un serpente a sonagli, ulula e infine si alza in lievitazione con un ruggito tipo bambina dell'Esorcista. Noi non cediamo e mentre Sara viene trascinata a Broadway come Robespierre alla Bastiglia, io e Gabriel ci avviamo felici verso l'affollato bar di Soho. Cinque dollari per entrare, schiere di italiani,  magliette azzurre e bandiere tricolori. Siamo tra i primi. Ci piazziamo al bancone a mezzo metro dal video. Birra, patatine, rutto libero. Eccitazione nell'aria.

Una bella ragazza italiana alla mia sinistra, accompagnata da un americano corpulento, finge di capire qualcosa di calcio e spara una scemenza dopo l'altra. Lui, che capisce meno di lei, annuisce, convinto che lei sappia di cosa parla.

Due romani coatti, in piedi dietro alla mia amica, si raccontano le ultime notizie. "E Luca, s'e' laureato poi?"
"S'e' laureato, si'. Ma sta arovinato, eh. Almeno s'e' laureato..."
Primo gol della Spagna. Gelo. Gli ispano-simpatizzanti nel pub esultano.
I due romani alzano la voce.
"E daje, Mario! A Mario!! Faje vede'!"
Balotelli se ne sbatte e continua a mancare la porta.

La ragazza italiana si sporge verso di me e fa: "Ma tu ci credi ancora, che vinciamo?"Aho, portassi sfiga, eh? Le faccio un sorriso diplomatico e sorseggio la mia birra, sperando capisca che non e' il momento.

Ma il tempo passa e l'Italia non da' segni di vita. Do di gomito a Gabe e sto per dirgli che il primo tempo e' quasi finito, se qua non ci diamo una mossa a segn--
Agh. SECONDO GOL della Spagna. Non ci posso credere. La scema alla mia sinistra si china di nuovo verso di me e mi chiede con atteggiamento confidenziale:"Che ne pensi, eh? Ci credi ancora? O e' la fine?" Ma che ne so io? Che so', la figlia di Biscardi, aho? Ma chi te conosce, poi? Faccio un altro sorriso di circostanza a denti stretti e vado in bagno.

Secondo tempo. Terzo gol della Spagna. La ragazza, non ancora paga, fa all'americano, "Tri gols! Uan okay, bat tri!" Lui, piu' rimbambito di Di Natale sotto porta, fa si' col capo ma evidentemente non sta capendo una mazza. Meglio.

La scema si mette a chiacchierare con uno dei due bori di Roma. Si scambiano nomi e strette di mano, poi subito parlano di immigrazione.
"Io ho la green card, tu?"
Lui: "Si', anch'io. Ti sei sposata per averla, eh?"
Lei: "Eh be,' si', eh. Tu no?"
Lui: "Si', si', anch'io..."
Lei: "Con chi?"
Ma che te frega?
Lui: "Una del mio ufficio... Ma stavamo insieme sul serio, sa'?"
Come no.
Lei: (pausa densa di significato) "Ah."

Io, Gabriel e gli amici beviamo birra, sidro, Coca-Cola. Siamo distrutti. Balotelli trascina i piedi, Buffon sembra addormentato. Una spagnola alle nostre spalle esulta a ogni passaggio della sua squadra con irritanti urletti: "Huuuu! Huuuu! Huuuu!" Vorrei dirle, come Sordi a Delle Piane: "A Cicalo', e statte zitta, e statte zitta." Sto gufo.

Quarto gol, e' umiliazione totale. Agonia degli ultimi minuti ad aspettare i tre fischi della fine, per poter uscire dall'incubo, fuori, in strada. I due romani dietro di me continuano a sbraitare e chiacchierare, come se non si fosse consumata nessuna tragedia. Si inserisce tra di loro una ragazza asiatica e strilla, tutta pimpante: "Ciaooooo, come va? Ma che lingua state parlando, scusaaaaa?"

Io e la mia amica ci guardiamo con un lampo omicida negli occhi.

Finalmente, i fischi. La partita e' finita. Balotelli piange e corre negli spogliatoi. Pirlo lacrima. Non ci sono tracce di mamme italiane orgogliose sugli spalti. Io faccio un sospiro, mi stiracchio e, inebetita dalla birra e dalla delusione, mi alzo.

"Allora - fa la mia amica con fermezza - questa e' la prima e l'ultima volta che io e te guardiamo una partita della Nazionale insieme. E' chiaro - conclude - che ci portiamo sfiga a vicenda."

In effetti. Il ragionamento non fa una piega.




Saturday, June 16, 2012

conwoody (e penelope)

Piu' o meno una volta l'anno, Gabriel decide di ricordare a sua moglie che lui e' un giornalista noto, inserito e potente. Cosi', quando gli ho detto che mi sarebbe tanto piaciuto andare all'LA Film Festival a vedere "To Rome With Love," invece di comprare i biglietti per comuni mortali come fa di solito, si e' incredibilmente attivato giornalisticamente e mi ha stupito con effetti speciali: due inviti alla prima di LA Live piu' fichissimo after-party. Sapeva di fare colpo, perche' non solo il film e' ambientato nella mia citta', ma e' di Woody Allen, sul quale ho fatto la tesi di laurea vent'anni fa -- e che avrei volentieri sposato se non fosse che poi ho incontrato un ebreo newyorchese piu' carino e piu' alto.

Dunque arriviamo al cinema, ci accomodiamo, e, stupore e meraviglia, ci accorgiamo che c'e' -- rullo di tamburi --- Woody! In persona! A Los Angeles! La citta' che odia! Ah... Emozione. Comincio a sudare, a saltare sulla sedia, a indicare in maniera imbarazzante. Invece di intimarmi di darmi una calmata, Gabriel mi prende a gomitate. Chiaramente sperando in ricompense di un certo tipo, mi fa: "Capito? TUO MARITO, mica uno qualsiasi, ti porta a vedere la prima del film e' c'e' perfino il tuo idolo Woody Allen. Non ti dico altro."

"Va be', va be', bravo, sta zitto che voglio sentire cosa dice."

Woody presenta le attrici del film, tra cui due italiane mai sentite e una Penelope Cruz tutta scintillante, e Gabriel tira fuori il cellulare per fotografare la scena. Strano, non e' da lui. Mi sa che vuole immortalare il tutto per ricordarmi quanto gli devo al momento giusto, quel maiale.

Poi Woody se ne va e non torna piu'.

Il film e' carino, pero' si capisce che il mio idolo, bravo e' bravo, ma di Roma non sa molto. La usa un po' come quand'ero piccola in famiglia usavamo Nazareth per il presepe. Un bel fondale, bella luce, bel panorama, niente di piu'. Tutto sommato la storia fila, pero', a parte un paio di stereotipi carini sugli italiani, la citta' non c'entra un bel niente con i personaggi e la trama. Potrebbero trovarsi tutti a Madrid, ad Atene, a Istanbul, o qualunque altra citta' calda, passionale e mediterranea. Sarebbe piu' o meno lo stesso.

Mi diverto comunque, sia chiaro. Pero' ammetto che, da italiana, un paio di cose mi danno fastidio. Primo, i due attori che fanno gli sposini di Pordenone in viaggio nella brulicante metropoli sono chiaramente romani quanto me, dato che hanno un accento piu' marcato de mi' nonna. Poi, Roberto Benigni dice la maggior parte delle battute come se stesse leggendole sul gobbo -- tanto, il regista non ci capisce una mazza, quindi non puo' giudicare la recitazione, che infatti fa pieta'. Infine, Jesse Eisenberg fa la parte di uno studente di architettura a Roma, e l'idea che un americano possa sopravvivere per piu' di mezz'ora in una qualunque aula della Sapienza mi fa, onestamente, sbellicare dalle risate.

Pero' mi piace un sacco riconoscere gli attori italiani che si sono messi in fila per avere un cameo nel film, tipo Maria Rosaria Omaggio e Ornella Muti, che appaiono per pochi secondi ciascuna. E poi  Albanese e' mitico, Woody in versione attore e' al top e Scamarcio, strepitoso, ha la battuta piu' bella del film.

Va be', Gabriel, andiamo a casa, va'. Hai fatto un bel colpo. Stavolta non posso proprio dirti di no.

Thursday, May 31, 2012

senzaitaliano/2


La nanny mi parla di suo figlio, che ha problemi di linea.
"Sai, gli piacciono molto i Cal-Zoun..."
Penso: hai capito sti americani, che fantasia. Un cibo dietetico a basso contenuto calorico e in piu' adatto alla dieta a Zona. Pero'. Non finiscono mai di stupirti.
Lei: "Ma sai cosa sono, no?"
Io: "No. Mai sentiti. Perche'?"
Lei (scandalizzata): "Ma non sei italiana? Sono un prodotto italiano!"
Euh. Un nuovo tipo di Vitasnella?
Io (un po' vergognosa) "Ma, sai, manco dall'Italia da parecchio... Poi non me ne intendo di roba dietetica..."
"Dietetica?! Ma fanno ingrassare tantissimo!"
Lampadina. "Ah!!! Mai vuoi dire i calzoni?"
"E io che ho detto?! Certo! Sono italiani, giusto?"
Come no. Italianissimi, i cal-zoun. Come Sylvester Stalloun, Al Capoun, e Berluscoun.

Saturday, May 19, 2012

masterizzata

E cosi', esattamente vent'anni dopo la prima sudatissima laurea in Italia, oggi sono salita su un podio con la toga nera, la mantella da Harry Potter e il tocco con il tassello e, con l'oceano Pacifico come sfondo e il sole californiano sulla testa, ho intascato il titolo di Master of Arts in Clinical Psychology.

Ora, e' vero che io sono una cinica italiana, senza religione e senza illusioni. Pero' vi confesso che quando, con la palandrana sulle spalle e in fila insieme ai colleghi laureandi, ho sentito gli applausi della platea e la musica trionfale che ci accoglieva, ho visto le bandiere a stelle e strisce che sventolavano sul cielo azzurro, ho ascoltato l'inno americano con la mano sul petto, improvvisamente mi sono accorta che il cuore mi batteva fortissimo.

E poi ho sentito chiamare il mio nome al microfono, sono salita sul palco, ho preso il diploma con la sinistra mentre stringevo la mano al rettore con la destra, ho sorriso per la foto di rito e infine, nella confusione, ho visto correre verso di me i miei figli saltellanti, sorridenti, orgogliosi della loro mamma accademica e mio marito, dietro di loro, che mi riprendeva da ogni angolo. Be', vi confesso che mi e' venuto un groppone in gola.

Ce l'ho fatta, ragazzi. Il mio sogno americano e' questo. Chiamatemi master.

Friday, May 18, 2012

senzatailleur


Con l'agognata laurea dietro l'angolo, sto frequentando l'ultimo corso del master di psicologia, una classe attentamente pensata per instradarci sul mercato del lavoro. Il programma della classe si puo' riassumere in poche parole: "Adesso che ormai e' troppo tardi e ci avete gia' sganciato tre quarti del vostro reddito per due anni e forse vi siete indebitati per il prossimo ventennio, ci sentiamo leggermente in colpa ma manco tanto, e allora ci decidiamo a informarvi che sono cavoli amari perche' il mercato e' saturo di aspiranti psicologi, l'economia e' in ginocchio e voi sarete probabilmente disoccupati per il resto dei vostri giorni. Pero', se proprio volete sfidare il destino, vi diamo qualche consiglio cretino per lavarci la coscienza."

Andare a lezione e' come ascoltare al rallentatore la canzone "Mio cuggino, mio cuggino," in cui Elio narrava le gesta da leggenda metropolitana di un suo congiunto deficiente. ("Mi ha detto mio cuggino che una volta si e' schiantato con la moto, poi s'e' aperto il casco e s'e' aperta la testa ... Mi ha detto mio cuggino che una volta ha trovato in spiaggia un cane e invece era un topo... Mi ha detto mio cuggino che una volta e' stato con una che poi gli ha scritto sullo specchio 'Benvenuto nell'AIDS...") 

Abbiamo dunque ricevuto i seguenti consigli dal professore:
"1) Se volete aprire uno studio privato, dovete affittare un ufficio a Beverly Hills e apparire piu' spesso che potete in televisione. Un amico mio ha fatto proprio cosi', e adesso, pensate, prende 300 dollari l'ora.

2) Se volete lavorare al dipartimento per la protezione dell'infanzia, sappiate che si lavora tantissimo, le soddisfazioni sono pochissime, i pazienti sono tutti poveracci e la maggior parte dei colleghi non ha voglia di far niente. E' un lavoro duro e molti lo odiano e si licenziano. Pero' un'amica mia ci lavora da vent'anni ed e' contentissima. Quindi, vedete voi.

3) Se volete lavorare come psicologo penitenziario, tenete presente che secondo la legge se i detenuti vi prendono in ostaggio, lo stato con condurra' alcun negoziato per ottenere la vostra liberazione. Me l'ha detto un direttore di prigione con il quale ho fatto un colloquio una volta, quindi e' vero.

4) Adesso vi dico come dovete vestirvi per i colloqui di lavoro. Questa e' una questione seria. Ricordatevi che e' la prima cosa che i vostri esaminatori noteranno. Quando sono stato membro di commissione, vi assicuro che alcuni candidati sono stati scartati per motivi di abbigliamento e le piu' accanite erano le donne. Quindi, la regola d'oro e': non cercate di farvi notare. Niente di appariscente. Orecchini piccoli. Tailleur obbligatorio, meglio se con gonna sotto al ginocchio. Si', si', lo so, Hillary Clinton porta il completo pantaloni, e' vero, ma lei puo' permetterselo perche' ormai e' arrivata (giuro, ha detto proprio cosi'). Evitate colori brillanti: limitatevi a grigio, blu scuro o nero, se proprio volete osare, magari va bene il marrone, ma io eviterei (il marrone, che botta di vita). Niente rosso, rosa, verde, azzurro, per carita'. SEMPRE le calze, anche d'estate. MAI le gambe nude. Le calze devono essere classiche, poi, eh: niente ricami o decorazioni, e per carita', inutile che ve lo dica, mai a rete! Scarpe decolletees classiche, chiuse, tacco medio. Attenzione: vietatissimi sandali o scarpe aperte davanti (forse le dita dei piedi sono particolarmente erotiche? Devo essermi persa qualche puntata). Per l'amor di Dio non voglio nemmeno sentire la parola jeans. Poco profumo, pochi gioielli, poco trucco. E non pensate di cavervela con un tailleur da poco prezzo, eh. Deve essere roba decente, almeno Macy's o Bloomingdale's. Se e' robaccia, si vede, e fate brutta figura."

Mi viene da piangere, primo perche' non possiedo alcun tailleur, ne' di Macy's, ne' di Gap, ne' di Piero il Fichissimo; secondo, perche' mi vedo gia' vestita come la tristissima ragazzina con valigia trolley protagonista di Up in the Air, senza nemmeno uno straccio di George Clooney a consolarmi. Poi pero' ripenso al mio primo colloquio di lavoro, nel Mesozoico del 1991, al quale mi presentai in calzoncini corti di lino e Superga beige. E a quell'altro, al quale indossai un vestitino di lana blu. E a quell'altro ancora, al quale andai - anatema - addirittura in jeans. Qualche volta mi assumevano, altre no, ma non credo che il colore dei miei pantaloni avesse un peso particolare. Come mai mi stavano a sentire, se ero vestita cosi' male? Come mai non mi cacciavano a calci prima ancora che aprissi bocca?

Ma non sara', professore, che tutte queste tue regole sono proprio come gli avvertimenti che mi arrivavano da ragazza, quando ingenuamente annunciavo di voler fare la giornalista? "Ma che, scherzi? La giornalista, tu? Ma su! Pensi davvero di farcela? Prima di tutto, devi trovare la raccomandazione! Se non conosci nessuno non ce la farai mai, sai quanta gente c'e' che scrive meglio di te... E poi il mercato e' saturo, l'economia va male, i giornali non assumono da anni, lascia perdere, cercati un lavoro serio, che e' meglio..."

Ecco, facciamo cosi', va: anche sto giro, il tailleur non me lo compro.

Wednesday, May 16, 2012

senzapubblicita'

Una mamma americana ha fatto causa alla Ferrero perche' nonostante la pubblicita' le avesse assicurato che la Nutella fa benissimo, lei, avendo nel frattempo mangiato pane e volpe, s'e' astutamente accorta che la crema conteneva tanto zucchero e tanti grassi. Ha vinto la causa.

Poi un gruppo di consumatrici, sempre americane, ha fatto causa alla Skechers perche' le famose scarpe "dimagranti" Shape Ups, incredibilmente, non hanno trasformato nessuna di loro in Kim Kardashian, testimonial del modello. Pure loro, giuro, hanno vinto.

Allora io ho deciso di intentare le seguenti cause:

  • contro le mutande Roberta perche' me le sono messe e il sedere e' rimasto taglia 46;
  • il cornetto Algida, perche' nonostante ne abbia mangiati a vagonate, nessun surfista biondo abbronzato e muscoloso si e' mai lanciato all'indietro dal pattino baciandomi;
  • i biscotti Misura, perche' non mi hanno mai fatto dimagrire;
  • tutti gli shampoo del mondo, perche' i capelli fini e appiccicati al cranio erano, e fini e appiccicati al cranio sono rimasti;
  • il caffe' Lavazza perche' ne bevo sicuramente molto piu' di Bonolis, ma di Paradisi e San Pietri finora nemmeno l'ombra (a ripensarci, per fortuna non vedo nemmeno quel deficiente di Laurenti, quindi forse ritiro la causa);
  • la pasta Barilla perche' quando mi sono presentata in ritardo per pranzo con un gatto bagnato in braccio e le scarpe infangate, i miei avevano gia' chiamato la polizia e urlavano come ossessi, poi il nostro gatto ha tentato di uccidere il nuovo arrivato e la pasta comunque a quel punto era scotta e l'abbiamo dovuta buttare;
  • e poi il Mulino Bianco perche' mi devono spiegare quando cavolo "i mulini erano bianchi."
Mi sa che divento miliardaria. Poi vi dico.


Wednesday, May 9, 2012

senzaitaliano

Certo che se davvero voglio che i miei figli parlino l'italiano, dovro' decidermi a impararlo io, per prima. E' questa la mia riflessione quando, seduta sul divano dei miei genitori a Roma, assisto al seguente piccolo show.
Entra Sara: "Mamma, guarda, ti faccio l'imitazione."
Esce dal salotto, rientra con cipiglio, braccio proteso in avanti e mano a carciofo, vociona.
"Aho, a signo', ma che sta' a di'? Ma che' se' scema, aho? Aho, a signo', ma che stai a di', che so' pazza? E mamma mia, aho. ODDIO MIO!" Se ne va, sghignazzando. Poi rientra: "Aho, a tifoso!!! (braccio alzato, pompante, a pugno) Ro-ma, Ro-ma, Ro-ma." Ora, a parte che io sono della Lazio, la scena e' agghiacciante. E stranamente familiare. "Ma sarei io?" chiedo con voce tremante. E lei, ridendo istericamente dall'altra stanza: "Ma che ne so, a signo'? Che te devo di'?" Dio mio.
Entra Ale, ciondolante, con un sorrisetto malizioso. Si siede sul divano accanto a me. Mi guarda in faccia  e intanto lo vedo che pensa. In genere e' un chiacchierone, ma in inglese. Qui ha meno padronanza della lingua. Dopo aver deciso che cosa dire, mi osserva in tralice, con il labbro all'insu' e un guizzo da diavoletto. Poi alza gli occhi al cielo, mette le mani in preghiera e le scuote avanti e indietro. "Aaaah, fijo mio benedetto..." Non riesco a trattenermi, comincio a ridere anch'io. Ho creato due piccoli mostri verdoneschi.
Ale mi fissa soddisfatto, poi dopo una pausa dice, in inglese: "You know Mommy, I'm not really Italian-American."
"No?" faccio io. "E cosa sei?"
"I'm Roman-American."
E ciai ragione, ciai.

Monday, April 30, 2012

senzagomme

Arrivo a Roma dopo il solito viaggio infernale di sei milioni di ore. Non appena l'aereo tocca terra, quasi tutti i passeggeri, col telefonino incollato all'orecchio, si sganciano le cinture e si alzano. "Ma stiamo ancora andando, mamma!" dice Sara, bambina molto attenta alle regole e alla sicurezza (bella di mamma). "Lo so amore, ma qua sono quasi tutti italiani... Tu pero' resta seduta." E infatti, molto prima di arrivare al gate, con le hostess della British che alzano gli occhi al cielo e rinunciano ad abbaiare, come di solito fanno in queste circostanze, "you must remain seated until the aircraft has come to a complete stop," la maggior parte dei passeggeri e' in piedi e pronta a scendere. Poi devono aspettare un quarto d'ora stipati in piedi con le borse appese alle spalle, ma vuoi mettere la soddisfazione?

Finalmente scendiamo, io, marito intontito e bambini inebetiti, e ci dirigiamo alla stazione delle due navette che ci porteranno al terminal. Sull'entrata di una delle due c'e', naturalmente, un cartello scritto a mano, come quello dei portieri: "Guasta." E come te sbagli? Saliamo sull'altra. Come al solito, la voce registrata dello shuttle mi ricorda lo sketch in cui Anna Marchesini dice a Tullio Solenghi, "Bevi qualcosa, Pedro. Su, bevi qualcosa, Pedro." E intanto Pedro s'e' gia' scolato un fiasco di vino. "Le porte stanno per chiudersi. Allontanatevi," dice il disco quando il trenino e' gia' partito da almeno un minuto e le porte sono chiuse da quel di'. "Il treno sta per fermarsi. Sorreggersi agli appositi sostegni," insiste Miss Sky Shuttle, mentre noi siamo gia' al ritiro bagagli.

Ovviamente rinunciamo subito a prendere un carrello perche' costa due euro, noi non abbiamo due euro e i gabbiotti per il cambio valuta non hanno (HA HA HA) moneta da cambiare. Passa una signora arrancante con neonata in braccio e carrello, disperata perche' non sa dove deve andare a prendere il passeggino. "Sa, io ormai vivo a Londra," mi fa, "e li' te lo danno insieme ai bagagli..." Mentre io l'aiuto a cercare il passeggino, Gabriel e i bambini si piazzano al carosello cinque. Che ovviamente, nonostante l'atterraggio sia avvenuto oltre 40 minuti fa, e' immobile e vuoto.

Squilla il cellulare e comincia il delirio di telefonate con mio padre, che e' venuto a prenderci.
"Laure', so' Papa'."
"Ciao, Papa'."
"Siete arrivati?"
"Si', siamo arrivati. Dobbiamo ancora prendere i bagagli pero'."
"Vabbe'. Io sto girando intorno all'aeroporto. Non me fanno ferma'. Adesso vedo se e' il caso di parcheggiare. Chiamami quando hai preso le valigie."
"Non posso, Papa'. Non ho credito. Richiamami tu tra 10 minuti." (ovviamente sono sicura che tra dieci minuti non sara' cambiato niente, perche' a Fiumicino il tempo e' misurato diversamente e dieci minuti umani qui equivalgono a un nanosecondo).

Drin.
"Laure', so' ancora Papa'. Mi sono fermato dove ci sono le auto col conducente. Se ti sbrighi, t'aspetto qua. Terminal 3, uscita 6."
"Va bene. Ma ancora le valigie non si vedono."

Drin.
"Laure', m'hanno fatto sposta'. Sto di nuovo girando. Quando esci, vieni sopra."
"Sopra dove, Papa'?"
"Sopra a dove stai adesso."
"Non so di che parli."
Interviene Gabriel: "Ho capito io."
"Dice Gabriel che ha capito lui."
"Vabbe', ci vediamo la'."
Sospetto che Gabriel non abbia capito una beneamata, ma non dico niente. Cominciano ad arrivare i primi bagagli. "Mamma, mamma, eccone due dei nostri!!!" Evvai.

Drin. "Laure', so' Mamma."
"Eh. Ciao, Mamma."
"Siete arrivati?"
A Ma', che dici te? "No, sto ancora in America."
"Che?"
"Scherzo, dai, Ma'. Si', siamo arrivati."
"Hai sentito Papa'?"
"Si', ci aspetta fuori."
"Va bene, io ti ho rifatto i letti."
"Grazie, mammi'."

Drin.
"Laure', so' Papa'. Sono ancora sopra, ma m'hanno fatto risposta'. Adesso devi venire al Terminal 3, uscita 3." Ma che vorra' dire? Non ci capisco piu' niente. Ma non discuto. "Va bene, Papa'."

Finalmente arrivano tutte le valigie, usciamo, passiamo la dogana e andiamo fuori. Incredibilmente, Gabriel ha davvero capito che cosa intendesse mio padre per "sopra," e ci ritroviamo sulla strada che costeggia i parcheggi a pagamento. Mio padre ha accostato in curva. Le auto strombazzano. I bambini, inconsapevoli di tutto, salutano contenti, "Ciao Nonno!!!" Nonno, flemmatico, saluta e bacia i bambini. Io e Gabriel cominciamo a caricare le valigie febbrilmente, mentre i clacson continuano a suonare. Arriva una vigilessa. "Se ne deve andare da qua. Non si puo' stare." "Ma allora uno dove si deve mettere, scusi? Non te fanno ferma'..." "Non mi interessa, qua e' in curva.  Non lo vede? Vada." "Va bene, va bene, mi faccia finire di caricare i bamb..." "No, signora, vada. Deve. Andare. Subito." "Ah, va bene, vado. Che faccio, lascio i bambini qui con lei?" La vigilessa diventa cremisi, Gabriel mi prende per un braccio e mi trascina via. La vigilessa ha i denti lunghi da vampiro. "VUOLE CHE LE FACCIA LA MULTA? HO DETTO VADAAAAA!" Gulp. Salgo in macchina, partiamo.

Come da rituale, Gabriel si siede davanti con Papa', il quale ci racconta i fatti degli ultimi giorni. Il padre del Trota e i diamanti della Tanzania, la nuova tassa Imu che dovremo pagare pure noi, il prezzo della benzina che continua a salire.

Poi: "Hai visto che v'ho fatto riparare la radio?" dice Papa', indicando lo stereo della nostra vecchia auto, che e' rimasta a lui.
"Ah, si'! E come hai fatto a trovare il codice?"
"L'ho portata al concessionario. Pero' m'hanno rubato le gomme."
"Che?!"
"Eh. Avevo preso gomme costosissime da un altro, dal gommista mio di fiducia, e dopo un po' di giorni che ero stato in officina mi sono accorto che tre erano diverse. Me ne hanno lasciata una sola, delle mie."
"Ma chi, quelli del concessionario?!"
"E per forza. Uno che ti ruba le gomme per strada mica te le sostituisce, no?"
Gabriel: "E che t'hanno risposto quando gliel'hai detto?"
Papa': "Ovviamente che era impossibile. In piu' m'hanno pure spillato 135 euro per una batteria che se te la compri da solo ne costa 50. Ladroni."

Ale, semi-addormentato: "Mamma? Che ha detto Nonno?"
"Niente amore, parla della sua macchina."
"Ma possiamo andare a cena a casa sua stasera? Perche' i rigatoni di Nonno sono i piu' buoni del mondo. Meglio dei tuoi, eh."

E cosi', invece del cipiglio disgustato che mi viene sempre dopo dieci minuti a Roma, pensando a tutti i misfatti che succedono nel mio Paese, stavolta mi sorprendo a sorridere tra me e me. Faccio un sospiro, appoggio la nuca allo schienale. Aaaah. Che ve devo di'? Per oggi, va bene cosi'. Benvenuti a casa.